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PREMESSA (chissà perché c’è sempre una premessa…)

Io credo che il mettersi a scrivere davanti ad una tastiera o seduti ad una scrivania o dove volete voi, sia soprattutto un atto di presunzione perché chi scrive crede di aver assunto una posizione di privilegio rispetto agli altri nel vedere, sentire e capire un certo soggetto o oggetto di discussione.
In realtà scrivere è un po’ come trovarsi nella stanza degli specchi, guardarsi attorno e vedere riflessa la propria immagine in una combinazione infinita di immagini distorte. Quello che scriviamo, dunque, non è altro che un parto della nostra fantasia, un’invenzione espressa con le parole, un’immagine riflessa da uno specchio, un aspetto o un possibile aspetto di noi stessi.
Eppure la scrittura è stata, fin dal momento della sua invenzione, veicolo di emozioni, sensazioni, drammi, lacrime, risate, pensieri e quant'altro siamo in grado di vivere nella monotonia della vita di tutti i giorni.
Già… e questo potete immaginare bene cosa significhi. Significa che davvero in quello che scriviamo, o leggiamo, realtà e fantasia sono le due facce della stessa medaglia ma significa anche che domani non possiamo sperare di trovare nulla di più di quello che saremo stati capaci di inventare e di sognare.
Quando mi è saltata in mente l'idea di farvi leggere qualcosa del sottoscritto è stato come entrare nella stanza degli specchi, scegliere due immagini o possibili immagini di me stesso e ciò che son riuscito a scorgere tra riflessi ingannevoli e voli di fantasia e provare a spiaccicarvele sotto gli occhi. Non provate, però, ad immaginare quale sia quella giusta (ammesso che ce ne sia una): non potreste saperlo.
Mi vengono in mente, infatti, le parole del mio amatissimo Italo Calvino, il quale alla domanda su chi fosse in realtà il Calvino scrittore ed in quale libro o scritto si rispecchiasse di più, rispose così: "Chiedetemi tutto ciò che volete ed io vi risponderò: ma non vi dirò mai la verità."

un re in ascolto (Yahoo Italia) 20/09/01

Era il maggio del 1968 quando sulle pagine di Linus fece la sua prima apparizione la "ragazzina coi capelli rossi" attraverso le parole scritte, pensate e sognate del timidissimo Charlie Brown.

Da allora in poi, lungo trent’anni e rotti di Peanuts, possiamo solo affidarci alle nostre arrugginite fantasie per immaginarla, perché la ragazzina coi capelli rossi noi non l’abbiamo mai vista. Schulz, non l’ha mai disegnata, né credo gli sia mai passato per la mente di disegnarla.

Dunque cosa sappiamo di lei? Se non il fatto che abbia i capelli rossi, più le probabili efelidi, anche se al momento non ricordo se il suo mentore Charlie Brown ne abbia mai fatto cenno, per il resto non se ne sa nulla, nemmeno il nome o il carattere. Per quanto ne sappiamo, anzi, potrebbe anche essere il fantasma amoroso del suo piccolo innamorato che potrebbe averne intuito la presenza dietro il vetro di uno scuola-bus fugace, oppure averne sentito la voce dietro una di quelle staccionate che separano i giardini delle villette americane. E, fortunatamente, non essendo mai cresciuto Charlie Brown potrebbe anche non aver visto che dietro quella staccionata non c’era niente da desiderare, nessuno da amare.

Accecati come siamo dalla nostra rappresentazione di "adulti", molti di noi nel leggere questa striscia si lasciano prendere da un leggero fremito di rabbia, come per dire "Cristo Charlie Brown! Datti una mossa!". E questo ruggito è di solito accompagnato da un sorriso di indulgenza, ultimo lascito della nostra insopprimibile voglia di inseguire quel che non c’è ma che non possiamo smettere di sognare, desiderare, amare anche se non lo ammettiamo. Ma almeno, a quel punto, sapremo ammettere quella mezza verità che soltanto nella solitudine di noi stessi, quando non siamo troppo accecati dalla nostra rappresentazione, siamo capaci di sussurrare: "Sono anch’io un po’ come Charlie Brown, ma non proprio come lui". E in effetti siamo peggio.

Può apparire strano come questo bambino dalla testa tonda abbia mantenuto intatta per mezzo secolo la propria popolarità malgrado la sua immagine da perdente, malgrado la sua mancanza di furbizia. Perché Charlie Brown non è furbo ed è proprio vero che questa è una delle caratteristiche che ci rendono simpatici alcuni bambini. Ed è altrettanto vero che in un mondo ed in una cultura dominati dalla furbizia Charlie Brown dovrebbe perdersi. Ma Charlie Brown non si perde. Non si perde perché in lui rivive, e si rinnova, la magia dei Peanuts che sta proprio in questo "non essere ancora" che risparmia ai bambini, e a noi eterni bambini, la definitiva delusione dell’essere, del crescere e di tutto ciò che sta dietro la staccionata.

D’altronde, cos’è amare se non quest’altra lunga attesa?

Charlie Brown, senz’altro il più saggio e il più maturo dei Peanuts, questo lo sa più di tutti, sa più di tutti che il filo invisibile della speranza che ci lega a ciò che non c’è, ma potrebbe essere, non va spezzato, mai.

Niente è ancora avvenuto, nessun San Valentino ha centrato o mancato il suo bersaglio, dunque tutto è ancora intero, intatto e può essere atteso, sognato nel migliore dei sogni possibili. La ragazzina coi capelli rossi non ha mai saputo, né saprà mai di Charlie Brown perché i Peanuts hanno chiuso e la staccionata rimarrà sempre troppo alta per la sua statura.

Sarei tentato di immaginare la ragazzina coi capelli rossi dentro una stanza di chat qualunque ed il mio piccolo Charlie Brown che non osa aprire uno di quei famosi mp, ma no, la ragazzina coi capelli rossi posso soltanto immaginarla dentro un fumetto. Sempre bambina, sempre coi capelli rossi che fruga nella cassetta delle lettere e trova un San Valentino anonimo che le accende la vanità ma non brucia neppure una delle sue curiosità sulla vita, sull’amore.

Allora prendo un foglio di carta e ti scrivo: "Tieni ragazzina coi capelli rossi, un buon San Valentino anonimo da tutti noi".

 

 

Sotto un cielo che si apre e si chiude al ritmo di una fisarmonica c’è l’Inghilterra: sobria e maestosa come il volto della Regina stampato sulle pesanti e dorate sterline. A dire il vero delle vicende di Casa Reale sembra importare più a noi italiani, poveri divoratori di soap-opera giornalistiche, tanto che se provaste a ricordare ad un suddito di Sua Maestà il motto "God save the Queen", questi assumerà immediatamente quell’aria pensosa, sospesa tra il dubbio e l’indifferenza, che in poche parole si riassume in un bel "Chissenefrega!".
Ma questi sono gli inglesi, gente che fondamentalmente pensa ai fatti suoi e crede che la vita sia un’incredibile serie di coincidenze cui non prestare molta attenzione, perché, in fin dei conti, basta saperle vivere con l’ironica saggezza di aver visto tutto a questo mondo. Incontrare un inglese significa ritrovarsi davanti una persona che sembra essere capitata lì per caso o, meglio, di essere soltanto di passaggio senza preoccuparsi molto di capire dove stia andando e dove abbia intenzione di andare.
Son proprio fatti così, fin dal 1690 allorquando il diplomatico e saggista inglese Sir William Temple nel suo saggio "Of poetry", affermò che erano stati i suoi connazionali ad aver inventato lo "humour", cioè quell’atteggiamento beffardo nei confronti delle noie della vita quotidiana. Esso poteva fiorire soltanto in una società libera come quella anglo-sassone e a dimostrazione di ciò fece notare che le altre nazioni europee nemmeno hanno questa parola nei vocabolari. Infatti "umore" in italiano e "humeur" in francese hanno tutt’altro significato che in inglese si tradurrebbe con "mood" o "disposition".
Ciò farebbe pensare alla lingua inglese come una lingua ricca di sfumature verbali e lessicali ma, in realtà, esiste la convinzione, tra gli studiosi di linguistica e della lingua inglese in generale, di come, ad esempio, il verbo "to get", accoppiato a differenti preposizioni, possa esprimere quasi tutte le azioni verbali e che perciò si potrebbe fare a meno di studiare tutti gli altri verbi.
Le particolarità in Inghilterra non mancano: provate a guardare per strada e vi sembrerà di vivere il mondo al contrario. Il senso di disorientamento che si prova a guidare a sinistra è tale che voi non riuscirete a capire in che direzione state andando, ed avrete la sensazione di essere costantemente in corsia di sorpasso, ovvero di essere fuori posto in un luogo dove il sole si potrebbe tranquillamente confondere con la luna, dove la pioggia rende tutti un po’ malinconici e irrimediabilmente pallidi.
Se poi voleste dare un colore a quest’isola questo sarebbe sicuramente il verde: prati verdissimi ed immensi si apriranno dinanzi ai vostri occhi, lasciandovi dentro la misteriosa ed insostenibile leggerezza di essere veramente piccoli a questo mondo.
Ma sarà soprattutto il vostro fegato a diventare verde non appena avrete assaggiato la bomba iperfritta del "fish’n chips" o i famosi "haddock" che se vi azzardaste a consultare il vocabolario Inglese-Italiano vi trovereste a leggere una definizione alquanto sconcertante: "Eglefino".
Infine un avviso per tutti gli italiani che non sanno fare a meno della nostalgia della propria lingua. Non provate a chiedere ad un inglese "Do you speak Italian?" perché vi risponderebbe con una delle pochissime parole di italiano conosciute in Inghilterra: "Vaffanculo!"

BEETHOVEN, VIAGGIO AI CONFINI DELL’ANIMA

"Venerate la sua insonne energia morale

e non andate a cercare in lui

la normalità" (Schumann)

 

7 maggio 1824. Kärthner - Thor - Theater di Vienna.

Sul podio a dirigere l’orchestra, che per la prima volta si apprestava ad eseguire la Nona sinfonia in re min., un genio sordo, noto, al secolo ed a tutte le future generazioni, col nome di Ludwig Van Beethoven, il Maestro, forse il più grande. Da diversi anni ormai l’udito del compositore era irrimediabilmente compromesso tanto che per comunicare con lui era necessario scrivere sui famosi quaderni di conversazione. La direzione dell’orchestra era, in realtà, affidata al primo violino Schuppanzig, e soprattutto al maestro di cappella Umlauf, il quale tra l’altro aveva dato ordine ai musicisti di ignorare i gesti del compositore.
La musica dunque iniziò e ciò che Beethoven aveva dinanzi agli occhi si trasformava tra le pareti della sua mente in musica sublime, sognata e vissuta quale unica via d’uscita da quell’ineffabile destino che lo aveva avvolto in un silenzio irreale. Ecco, quella era la sua unica certezza nel vedere un’orchestra che stava eseguendo note che vibravano solo tra le pieghe della sua anima ed era una certezza che mai lo aveva, e lo avrebbe, abbandonato in quell’itinerario terribile della Nona Sinfonia, bilancio di una vita, fino ad esplodere nell’inno alla gioia finale, che tradiva la sua immensa e generosa fiducia nell’uomo invitandolo alla speranza, alla fraternità.
Improvvisamente i musicisti smisero di suonare ma lui, inconsapevole di ciò che stava accadendo alle sue spalle, continuò a girare le pagine del suo spartito e della sua mente, fino a quando la solista Unger scese dal palco dei cantanti, abbracciò dolcemente Beethoven e lo girò verso la platea: il pubblico era in delirio per quella che nei secoli e nei secoli verrà celebrata come la sinfonia, una delle più grandi opere che l’umanità avesse mai conosciuto.
Immagino Beethoven lasciarsi sfuggire un sorriso carico di gioia e amarezza allo stesso tempo perché non si può non essere d’accordo con il critico musicale Armando Torno quando scrive: "La Nona che ascoltiamo nella realtà, con quei suoni che Beethoven si è immaginato ed ha elaborato lentamente è forse altra cosa. La vera Nona la conobbe soltanto lui e la suonò in sé e con sé mentre un’orchestra non accettava i suoi ordini". Così si realizza un evidente paradosso: se è vero che Beethoven non ebbe mai la soddisfazione di sentire eseguite le sue ultime opere, è anche vero che forse il mondo non ha mai conosciuto la musica che Beethoven compose nella sua mente.
Quella del lontano 7 maggio 1824 è una delle rarissime apparizioni in pubblico del compositore nel suo ultimo decennio di vita, quello maggiormente avvolto nel mistero, quando l’udito era soltanto un terribile e doloroso ricordo che gli sventrava l’anima e lo rinchiuse in una solitudine assoluta.
Mi son chiesto spesso, durante la mia lettura di appunti biografici su Beethoven, se la sordità avesse in qualche modo inciso sulla sua opera, e la risposta non può che essere positiva. Lo stesso M. Solomon nella sua biografia sul compositore così scrive: "In quel suo mondo di sordo, Beethoven potè sperimentare nuove forme di esperienza, libero dai suoni invadenti dell’ambiente esterno, libero dai rigidi schemi del mondo materiale, libero come un sognatore, di combinare e ricombinare la sostanza della realtà, seguendo i propri desideri, in forme prima inconcepibili"
Se basta chiudere gli occhi per immaginare cosa prova un cieco, non sarà mai sufficiente tapparsi le orecchie per comprendere il mondo di un sordo. La sordità è la condizione che più di ogni altra costringe ad una continua ricerca introspettiva, venendo a mancare quel richiamo costante alla realtà che filtra idee, pensieri e sensazioni. Si vive in un universo di suoni e rumori immaginari, immersi in una realtà, gigantesco acquario impazzito, che rischia essa stessa di divenire immaginaria. Si è soli, dannatamente soli in un silenzio che offre poche certezze e tanti tanti maledetti dubbi che martellano il cervello. Ma questo la gente non lo sa e probabilmente non lo vuol sapere e allora si deve o tacere o mentire, aggrappandosi ai propri ideali, se non si vuole affondare per sempre negli abissi del silenzio.
Nel 1801 in una lettera al suo amico F.G. Wegeler, il trentunenne Beethoven così scrive:

"Devo confessare che la mia vita trascorre miseramente; da circa due anni evito la vita di società perché non mi è possibile dire alla gente: sono sordo".

Erano anni di grande tormento che, unito al suo temperamento collerico, ne facevano emergere un figura in lotta contro se stesso, irresistibilmente esposto alla tentazione di arrendersi di fronte al rinnovarsi monotono delle sofferenze, a quella solitudine esasperata.
Soltanto in altre due o tre lettere Beethoven accennò a quel calvario che, usando le sue stesse parole, lo avrebbe privato della "parte più nobile di se stesso". A partire dal 1810 non esiste alcuna lettera o documento, in cui Beethoven faccia riferimento alla sua avanzata sordità.
Aveva scelto di tacere.
La sua era una missione che non poteva fallire, non se lo sarebbe mai perdonato. Guidato dalla sua straordinaria e, forse, ineguagliabile sensibilità artistica realizzò un viaggio oltre il tempo ed oltre lo spazio quale nessun altro artista, credo, riuscirà mai a realizzare. La sua arte lo aveva salvato, consapevole che un giorno il suo genio gli avrebbe reso tutto.
Si dice che Beethoven avesse segato le gambe del suo pianoforte e che suonasse disteso con l’orecchio sul pavimento per carpire meglio le vibrazioni, ma queste forse sono leggende destinate ad alimentare il mito di un genio sordo che ha donato agli uomini una musica immortale.
Al contrario della sua musica, Beethoven incontrò la morte tre anni dopo quel famoso 7 maggio 1824, in perfetta solitudine ed in linea col suo destino di eroe tragico. Molti furono quelli che visitarono il compositore nei suoi ultimi giorni di vita (fra questi F. Liszt, Schubert, G. Rossini), ma pochi, pochissimi quelli che lo assistettero nella sua triste dimora della Schwarzspanierhaus (Casa degli Spagnoli neri). Tra quelle mura mi piace pensare che ancora oggi riecheggino le parole del suo Testamento:

O uomini se un giorno leggerete queste mie parole, ricordate che mi avete fatto torto, e l‘infelice tragga conforto dal pensiero di aver trovato un altro infelice che, nonostante tutti gli ostacoli imposti dalla natura, ha fatto quanto era in suo potere per elevarsi al rango degli artisti nobili e degli uomini degni.